Il problema delle fonti e il ruolo della scrittura

Ci eravamo lasciati una settimana fa con la storia geologica delle isole Fær Øer. Un percorso incredibilmente lungo e ricco di sorprese, ma adesso è tempo di entrare nella storia propriamente intesa. O almeno ci avviciniamo. Sì, perché in realtà si definisce “storia” tutto ciò che avviene dall’invenzione della scrittura in poi. Il periodo che precede questa fase prende il nome di “preistoria”, età caratterizzata dall’assenza della scrittura.  Non è dato sapere chi abbia inventato la scrittura, né probabilmente esiste un primo inventore, dal momento che questa si è sviluppata presso popoli diversi in momenti diversi. Senza addentrarci nella questione, prendiamo per buono ciò che è sempre stato insegnato a scuola. Le più antiche forme di scrittura risalgono al IV millennio a. C. e sono situate nell’area mesopotamica.

Le rovine di un tipico wheelhouse a Jarlshof, sulle isole Shetland. Queste isole a nord della Scozia erano abitate già intorno al 4000 a. C., mentre le Fær Øer erano ancora probabilmente disabitate (fonte foto: en.wikipedia)

Il mito senza fine di Pitea

All’epoca, quasi sicuramente le Fær Øer erano disabitate, contrariamente a isole più meridionali come ad esempio le Shetland. Qui diversi siti archeologici rivelano un’attività umana già abbastanza fiorente. Ma allora, dal disgelo post ultima glaciazione all’arrivo dei primi monaci irlandesi, le nostre isole erano sconosciute a tutti? Possibile che per millenni nessuno si sia accorto della loro presenza? La risposta sembrerebbe positiva.

Tralasciando miti e leggende, c’è un nome che dobbiamo fare immediatamente: Pitea di Massalia. Originario della Gallia Narbonense, corrispondente all’attuale sud della Francia, questo abile navigatore greco del IV secolo a. C. è entrato nella storia. O forse nella leggenda. O forse in entrambe. Quest’uomo dimenticato in realtà potrebbe essere stato il primo uomo della storia ad aver avvistato le Fær Øer.

Il condizionale è d’obbligo, perché di certezze nella sua storia ce ne sono davvero poche. Una di queste poche certezze è che il suo viaggio nell’Europa del Nord sia avvenuto davvero: è stato il primo a descrivere fenomeni come il sole di mezzanotte, l’aurora boreale e il mare ghiacciato. Altrettanto sicuro è il fatto che abbia circumnavigato le isole britanniche, a cui tra l’altro ha dato il nome con cui le conosciamo. Poi, il buio. Ci sono diverse ipotesi sulla rotta che abbia seguito, ma se lui stesso parlò del mare ghiacciato, evidentemente deve essersi spinto molto a nord. Ed è qui che entra in gioco uno dei miti più noti dell’antichità: l’isola di Thule.

Una possibile ricostruzione del viaggio di Pitea, che identifica Thule con l’Islanda. Ma chi vi scrive è quantomeno scettico in merito… (foto da fmboschetto.it)

Thule o non Thule?

Prima di proseguire, occorre dire che i racconti di Pitea sono stati screditati dallo storico e geografo greco Strabone (circa 60 a. C. – circa 20 d. C.), ma oggi sono ritenuti attendibili. Il problema, quindi, è identificare questa Thule, descritta da Pitea come una terra dove il sole non tramonta mai. Una terra a sei giorni di navigazione a nord delle isole britanniche. Una terra di fuoco e ghiaccio. Praticamente, l’Islanda. Ma è davvero possibile? Alcuni sono propensi a crederlo, ma chi vi scrive è piuttosto scettico in merito. Il tratto di mare che separa le isole britanniche dall’Islanda è molto tempestoso. Che Pitea sia riuscito a sopravvivere sia all’andata che al ritorno è quantomeno improbabile.

Ma anche se fosse, una volta arrivato in Islanda dove avrebbe trovato da mangiare, se l’isola era deserta e disabitata? E poi una questione pratica. I Vichinghi fecero quel che fecero perché le loro navi erano tecnologicamente avanzate. Risulta difficile credere che il solo Pitea, un millennio prima di loro, potesse disporre degli stessi mezzi. L’Islanda era semplicemente irraggiungibile all’epoca. Ed è qui che entrano in causa le Fær Øer, più vicine alle Orcadi, le quali secondo Gaio Giulio Solino distavano solo cinque giorni da Thule. Con le tecnologie nautiche dell’epoca, non sembra improbabile.

Ma è l’unico dato a sostegno della “tesi faroese”, esclusa da un elemento fondamentale: gli abitanti. Secondo Pitea, Thule era abitata da persone che coltivavano grano, mangiavano frutti e bevevano latte. E nel IV secolo a. C. alle Fær Øer l’unica cosa viva erano le piante, forse le pecore, di certo non l’uomo. E poi alle Fær Øer il mare non è mai ghiacciato. Invece, coltivazioni di grano potevano esistere nel sud della Scandinavia, per cui azzardo una mia ipotesi personale.

Un’ipotesi sul vero viaggio di Pitea

Pitea, dopo le isole britanniche, ha attraversato il più tranquillo Mare del Nord, è passato per lo stretto di Øresund, è arrivato sull’isola estone di Saaremaa (abitata già 5000 anni fa e che alcuni identificano proprio con Thule) e poi è risalito nel Golfo di Botnia, dove può aver osservato tutti e tre i fenomeni da lui descritti. Infatti, il Golfo di Botnia si ghiaccia d’inverno, è un ottimo punto per osservare l’aurora boreale e offre cieli rosseggianti in occasione del sole di mezzanotte. Poi, trovata l’estremità settentrionale chiusa dalla Lapponia, sarebbe tornato indietro.

Curiosità: nel nord della Svezia esiste una città di nome Piteå, che si affaccia proprio sul Golfo di Botnia. Il suo nome non ha però nulla a che vedere col navigatore greco, in quanto vuol dire letteralmente “Fiume Pite”, e il Pite è il fiume che la attraversa. Semplice coincidenza, ma chissà che magari non possa rivelarsi un indizio…

Un’analisi al microscopio di granuli pollinici derivanti dalla coltivazione di cereali. Questi campioni sono stati prelevati dalle isole Shetland, ma un eventuale ritrovamento sull’arcipelago faroese ci aiuterebbe a capire meglio come vivevano le prime comunità locali (foto presa da sciencenordic.com)

E allora chi è stato il primo a esplorare le Fær Øer?

Torniamo quindi al punto di partenza. Se le Fær Øer non sono Thule, allora non è stato Pitea a scoprirle.

La storia tradizionale racconta che i primi ad arrivare siano stati San Brendano e altri monaci irlandesi. Siamo tra il V e il VI secolo dopo Cristo, ma questa versione è incerta. L’archeologo Micheal Church dell’Università di Durham e Símun V. Arge, direttore del Museo Nazionale delle Fær Øer, hanno infatti ritrovato qualcosa di interessante. Scavando sotto i resti di una casa lunga vichinga, la loro équipe ha trovato due strati di cenere di torba bruciata contenente chicchi di orzo: prove inequivocabili della presenza umana. La datazione al radiocarbonio degli strati di cenere mostra che uno fu bruciato tra il IV e il VI secolo d. C., e l’altro tra il VI e l’VIII. La cenere fu probabilmente prelevata da focolari domestici e poi diffusa sulla superficie sabbiosa per fermarne l’erosione, una pratica comune nel Nord Atlantico all’epoca.

Allora chi è stato ad arrivare per primo? Mistero. La presenza dei chicchi di orzo è un elemento troppo debole per fornire una conferma all’ipotesi di San Brendano. Probabilmente, qualcuno prima dei Vichinghi c’era, ma l’invasione vichinga ha poi cancellato tutto. Per quanto ne sappiamo, i primi coloni potevano venire dalla Scandinavia o dalle isole britanniche, tutti posti in cui si coltivava orzo.

Cosa manca allora per essere certi? Una prova schiacciante. E purtroppo in Nord Europa la scrittura è arrivata più tardi che nel Sud, quindi non abbiamo documenti scritti. Il dubbio quindi resta, ma restiamo fiduciosi, perché il mistero è sulla via della risoluzione.