Calcio e società: un legame evidente
Alle soglie del 2018, il calcio rappresenta ormai un fenomeno sociale piuttosto complesso, esulando dalla sua natura di semplice sport. Dall’economia alla criminalità, passando per la politica e il marketing, esso è a tutti gli effetti un riflesso dei nostri tempi. E, per certi aspetti, della nostra mentalità. Negli ultimi tempi, infatti, nelle curve europee sono sempre più frequenti episodi di antisemitismo, di razzismo e più in generale di xenofobia, riconducibili agli ambienti di estrema destra. E questo si ricollega ad un deprecabile ritorno di certe idee nei Paesi del Vecchio Continente. Parallelamente, sta guadagnando sempre più visibilità il tema dell’omosessualità, e anche il calcio pian piano si sta avvcinando al mondo gay. E l’Islanda, come in tutte le questioni sociali, si prepara una volta di più a fare da apripista.

Una foto di Bianca Elissa Sierra García e di Sandra Stephany Mayor Gutiérrez, compagne nel Þór/KA e nella vita. Di loro abbiamo già parlato in un post su Facebook datato 9 luglio 2017 (clicca qui per leggerlo).
Del tema in realtà ci siamo occupati di sfuggita già in altre circostanze ai tempi di CIEF. Tuttavia, non ne abbiamo mai parlato in maniera diretta. L’unica occasione è stata il 9 luglio di quest’anno, quando su Facebook vi abbiamo raccontato della storia di Bianca Elissa Sierra García e di Sandra Stephany Mayor Gutiérrez. Come ricorderete, le due giocatrici messicane del Þór/KA sono compagne non solo di squadra, ma anche di vita. La loro storia, che noi abbiamo ripreso dal New York Times, in realtà non sorprese quasi nessuno. L’Islanda è tra i Paesi più sicuri e protettivi al mondo per le donne, così come uno dei più attenti ai diritti gay (e non solo). Dunque, che una cosa del genere succeda nel calcio femminile islandese sembra perfettamente normale. Ma il problema non è il calcio femminile, bensì quello maschile.
L’omosessualità nel calcio maschile
La questione dell’omosessualità nel calcio maschile, in realtà, è piuttosto vecchia. Ripercorrere tutta la storia sarebbe troppo lungo, ma per brevità possiamo ricordare un solo episodio. O meglio, un solo nome: Justin Fashanu. Siamo negli anni ’90, l’omosessualità è stata da poco cancellata dall’OMS dalla lista delle malattie mentali e Fashanu gioca nel campionato inglese. Quando decide di fare coming out, il giocatore inglese firma inconsapevolmente la sua condanna a morte. Ripudiato dalla comunità nera di cui era parte e dal suo stesso fratello, Justin diventa bersaglio facile di un mondo ancora poco aperto sul tema. Entra quindi nella spirale della depressione e, accusato ingiustamente di aver abusato sessualmente di un diciassettenne durante un periodo trascorso nel Maryland (USA), il 2 maggio del 1998 decide di togliersi la vita. All’età di 37 anni.
Da allora, il silenzio. Certo, le istituzioni del calcio (la UEFA soprattutto) si stanno impegnando attivamente per combattere l’omofobia, ma è ancora poco. Eppure, qualcosa lentamente si sta muovendo. L’apertura sul tema è crescente, con ex calciatori (Thomas Hitzlsperger) o anche calciatori in attività (Robbie Rogers, fresco di matrimonio col compagno Greg Berlanti) che escono allo scoperto. Sono passati solo 19 anni dalla tragica fine di Fashanu, ma sembra un’eternità.
L’omosessualità nel calcio maschile islandese

Una foto del matrimonio di Robbie Rogers col suo compagno. In mezzo, il figlio Caleb.
Tuttavia, Rogers è americano, e dall’altra parte dell’Atlantico il calcio non è il simbolo della cultura machista come da noi. In Europa, il silenzio dei giocatori gay (che esistono) permane, nonostante gli sforzi di alcune istituzioni, anche politiche. Il governo della cancelliera tedesca Angela Merkel, per esempio, si è più volte apertamente espresso in favore della totale libertà sessuale degli atleti. Ci sono casi di arbitri europei che si dichiarano gay (l’ultimo in ordine di tempo è stato lo svizzero Pascal Erlachner, ma lo hanno preceduto già tanti), ma nessun giocatore. Il ricordo di Fashanu, evidentemente, è ancora forte.
Ma in tutto questo, qual è la posizione dell’Islanda? Semplice, è il paese che ha più probabilità di rompere per primo questo muro. A dirlo indirettamente è un sondaggio internazionale di Forza Football, realizzato con l’aiuto dell’associazione Stonewall, attiva nel campo dei diritti civili. Lo studio ha coinvolto oltre 50.000 persone in 38 paesi diversi, tra cui c’è l’Islanda. Nel quesito, agli utenti dell’app veniva chiesto se si sentissero pronti ad accettare l’idea di un giocatore gay nella propria squadra. E l’Islanda si è rivelata, insieme all’Irlanda, la più aperta sul tema: l’87% dei tifosi islandesi non avrebbe problemi con un calciatore gay. Si tratta della percentuale più alta al mondo, superiore anche rispetto agli altri paesi nordici. All’estremo opposto troviamo invece l’Egitto, con appena il 10% ma comunque in linea con tutti gli altri paesi arabi. Tra questi ultimi, il più “aperto” è la Giordania, col 18%.
Il ruolo dei media
L’apertura islandese, come dicevamo in precedenza, non deve stupire. L’isola nordatlantica, infatti, è di gran lunga una delle nazioni più gay-friendly al mondo.
Gli stessi gay pride, per intenderci, sono autentiche feste nazionali, dove partecipano liberamente famiglie (omo e etero) e politici di ogni schieramento. La differenza con l’Italia – che il sondaggio premia a sorpresa con un bel 67% – è talmente evidente da essere imbarazzante. Dal confronto, il nostro Paese esce con le ossa rotte (ma questo già lo abbiamo detto qui, qui e qui).
Ricordiamo anche che l’Islanda ha avuto il primo capo di governo dichiaratamente gay, Jóhanna Sigurðardóttir. Oltre ad essere la prima donna a ricoprire questo ruolo in Islanda, Jóhanna è stata chiamata a guidare l’Islanda nel periodo più drammatico della sua storia, vale a dire l’indomani della terribile crisi economica del 2008. Diventata primo ministro nel febbraio 2009, ha traghettato l’isola fuori dalla crisi, concludendo il suo mandato, e la sua carriera politica, nel maggio 2013.
Partiamo comunque dal 2005. L’Islanda ha già leggi contro la discriminazione di matrice omofoba e sulle unioni civili. E mentre a Roma la questione è ancora un pruriginoso tabù, nei cinema di Reykjavík si parla di omosessualità nel calcio. Il film Eleven Men Out ripropone la storia di Ottar Thor, stella del KR che decide di fare pubblicamente coming out. Nonostante la sua importanza nella squadra, presto finisce fuori rosa. Decide allora di unirsi a un club di dilettanti, composto esclusivamente da giocatori gay. Il padre, dirigente del KR, prova a convincerlo a ritornare in maglia bianconera. Il film quindi si conclude con Ottar che accetta la proposta, ma ad una sola condizione: che il KR disputi un’amichevole con i dilettanti gay.

La locandina di “Eleven Men Out”
Dalla trama si notano subito due cose. La prima è l’assenza del classico “lieto fine”: Ottar ritorna a giocare col KR, ma non sappiamo cosa ne pensano davvero compagni e allenatore. La seconda invece è proprio la questione dei tifosi: Ottar non viene allontanato per la loro reazione negativa, ma per problemi di convivenza nello spogliatoio.
Società e istituzioni
In realtà, il film non poteva parlare di tifosi omofobi in un paese in cui, già nel 2004, il supporto al matrimonio egualitario superava l’80%.[1] Viene però da chiedersi, allora, come sia possibile che ancora nessun giocatore islandese abbia fatto coming out. Se nessuno esce allo scoperto, nemmeno in uno dei paesi più aperti al mondo, forse la speranza è poca. Sia chiaro in partenza, ogni essere umano ha diritto ad una vita privata e a non vederla messa in pubblica piazza. Tuttavia, un giocatore europeo ancora in attività che si dichiarasse gay sarebbe un bel segnale. E considerando il periodo di visibilità senza precedenti che sta avendo l’Islanda, sarebbe bello iniziare da qui questa piccola rivoluzione.
Lo ha capito anche la KSÍ, la federazione calcistica locale, che da tempo si è attivata fortemente sul tema. Esistono infatti dei corsi annuali i cui partecipanti vengono preparati alla possibilità che un membro della propria squadra/società si dichiari pubblicamente omosessuale, bisessuale o transgender. Si tratta di corsi intensivi, tenuti in collaborazione con l’ÍSÍ, l’equivalente islandese del nostro CONI. Il corso, inutile dirlo, è stato incoraggiato e sostenuto dalla UEFA nell’ambito della lotta contro ogni discriminazione condotta dal governo del calcio europeo.
Un impietoso confronto
Permettete ora una chiosa, volutamente polemica: quanto è grande la distanza tra Islanda e Italia? Non vogliamo fare un confronto sulla situazione dei diritti. Questa umiliazione la risparmiamo volentieri al nostro Paese. Parliamo proprio della posizione delle istituzioni calcistiche. Detto di quelle islandesi, spendiamo due parole veloci su quelle dello Stivale. Anche noi abbiamo meravigliosi primati di cui vantarci, contrariamente a quello che si possa credere. Possiamo addirittura scegliere la migliore tra una vasta gamma di uscite omofobe di pregevole valore.

Felice Belloli, un campione dell’omofobia nel calcio italiano (fonte foto gazzetta.it)
Senza andare troppo indietro nel tempo, andiamo dal “froci in nazionale? Speriamo di no” di Antonio Cassano (e qui ci sia concesso di stendere un velo pietoso) fino al dispregiativo “quattro lesbiche” del signor Felice Belloli, capo della Lega Nazionale Dilettanti. Come dimenticare poi il trattamento dei gay come fossero appestati da parte dell’esimio Carlo Tavecchio, della cui imbarazzante presidenza la FIGC si è finalmente liberata dopo anni di uscite incommentabili. Sì, proprio lui, l’intramontabile gaffeur del nostro calcio, colui che ha di fatto depenalizzato i cori razzisti negli stadi, soprattutto quelli anti-napoletani. A proposito di Napoli, nel 2012 il presidente Aurelio De Laurentiis dichiarò placidamente che i gay nel calcio esistono e che non ci sarebbe nulla di male nell’ammetterlo, ma che nessuno lo fa per convenienza. Unico presidente di Serie A a parlarne senza peli sulla lingua.
Pensate forse che qualcosa sia cambiato da allora? Che la FIGC abbia pensato di lavorare alla questione? Certo, la risposta è stata proprio l’elezione di Tavecchio! Ecco, prima che qualche genio ci accusi di essere esterofili o “islandofili” (è già successo ad altre pagine, succederà anche a noi prima o poi), riflettete su questo.
Note
[1] Per chi parla o conosce la lingua svedese, la fonte è lo studio “Regnbågsfamiljers ställning i Norden. Politik, rättigheter och villkor” (pag. 269) di Jennie Westlund, anno 2009, Stoccolma.
Non sono presenti commenti.